CASA
I nostri pensieri affastellati tra pentole e librerie nelle nostre case del coronavirus
di Gianluca Nicoletti
Il nostro ricordo dei mesi di lockdown è variabilmente misurabile a seconda dei metri quadrati delle nostre case. L’angoscia non è stata uguale per tutti, è stato infinitamente meno oppresso chi poteva stemperarla in un terrazzo, in un affaccio che non fosse solo su altre case, in angoli riservati in cui fosse possibile rincantucciarsi, senza avere altre persone di famiglia appiccicate addosso.
Di qualunque formato e classe fossero comunque le nostre case sono state per noi l’equivalente del guscio di una tartaruga, per un tempo apparentemente infinito.
Nessuno di noi avrebbe potuto immaginare, prima del fatidico 8 marzo, di entrare in un rapporto di simbiosi così viscerale con quella scatola di mattoni, cemento e cartongesso che avevamo considerato unicamente come il contenitore di una parte della nostra vita. Eppure le case non sono solo delle scatole, restano esse stesse condizionate dalle vite che si consumano tra le loro mura. Ogni casa conserva la traccia sottile dei suoi abitatori, ombra impercettibile che non lascia alone visibile sull’intonaco, nelle carte da parati, sui pavimenti calpestati. È quella che possiamo chiamare l’anima di una casa, che si stratifica generazione dopo generazione dei suoi abitatori. Non basta ristrutturare, tramezzare, ripavimentare, riarredare.
La nostra casa, sia di proprietà che in affitto, ci respira giorno dopo giorno e trattiene memoria di ogni nostro pensiero, ogni palpito, ogni gesto, ogni singulto amoroso o urlo di rabbia. Tutto questo sarebbe potuto sembrare solo un esercizio astratto di onirico delirio, sarebbe potuto… Fino a che non è arrivato il Covid a incollarci giorno e notte all’interno delle nostre case, dove improvvisamente siamo stati costretti a fare entrare di tutto.
Ogni angoscia, pensiero, paura, strame di banchetto emotivo, non siamo più riusciti a tenercelo dentro; tanto meno a scaricarlo addosso alle altre persone come sedimentata abitudine. Abbiamo solo potuto affastellarlo come masserizia mentale sulle nostre librerie, negli scaffali, tra le pentole e i mestoli, nell’angolo dei detersivi, al buio del cesto della biancheria sporca accanto alla lavatrice.
Per sentirci meno soli abbiamo sguinzagliato gesti e parole per tracciare graffiti indelebili su quelle che pensavamo le nostre cucce, che si sono trasformate in cassa di risonanza di immagini seppellite del nostro passato, specchi deformanti della figurazione eccelsa che avevamo costruito su di noi, altare del vaticinare sul nostro improbabile futuro.
Ora ci troviamo come all’indomani di un incubo surreale che ci ha sbatacchiato “Da mezzanotte all’alba”, esattamente come i sopravvissuti dell’omonimo horror cult. Le nostre case sono tornate “normali” dimore, ci si presentano nella loro banale e consueta realtà, penseremo a rinfrescare le pareti, a rinnovare qualche mobile o cambiare almeno la loro disposizione.
L’incubo delle vite sigillate ci sembra svanito, le case tornano ad essere luoghi di passaggio, ci dimenticheremo presto di quando erano le nostre “Fortezze Bastiani”. Visto che possiamo permetterci questi pensieri, siamo tra quelli che questa volta i tartari li hanno lasciato in pace.
Siamo quindi grati alle nostre case che hanno sopportato il peso della nostra insofferenza a sentircele addosso, senza che il tempo distinguesse, con vari e quotidiani passaggi per un portoncino, il mondo di fuori da quello che sta dentro.
(© Gianluca Nicoletti/La Stampa, 16 giugno 2020)
(Nella fotografia: Niccolò, costretto in casa con i genitori dalla quarantena in provincia di Latina).